Come sta il mobile journalism italiano

Mobile Journalism: è il tempo di Mojo Italia.

Si tratta di un’interessante festival che racconta il giornalismo in mobilità grazie al grande lavoro dei colleghi Nico Piro ed Enrico Farro, dell’Associazione Stampa Romana e dell’Associazione Filmaker. Ho deciso di utilizzare questa giornata per fare una gita a Roma, alla città dell’Altra Economia, per capire in che stato di salute si trova il mobile journalism italiano.

La domanda di partenza

L’idea di partenza è nata da una domanda che ho iniziato a farmi qualche tempo fa, dopo aver ricevuto dei segnali contrastanti sulla capacità di penetrazione del giornalismo in mobilità nel mondo, nei modi e nei modelli del giornalismo italiano. Inutile negarlo, sono anni che combatto resistenze e cerco di convincere gli scettici, ma le risposte che ho dal mercato del lavoro che svolgo sono contrastanti.

Di conseguenza mi sono messo in treno con una domanda ben precisa in testa: come sta il mobile journalism italiano? Ho partecipato tutto il giorno a corsi del festival di Mojo Italia come avevo anticipato nella pagina eventi. Ho ascoltato, seguito, incontrato, visto, capito.

Le voci e le sensazioni

Nella mattinata ho seguito un corso su Luma Fusion, senza dubbio la più importante app di montaggio in mobilità. Se segui i miei corsi me ne hai sentito parlare per centinaia di volte. A tenerlo i colleghi Alessandro Guarasci e Simone Tedeschi. Dopo il corso ho raccolto la voce del primo, il quale giustamente parla i assoluta necessità di formazione.

Il corso, più che avere una sua linearità didattica è parso una serie di assaggi della materia straordinaria che è l’uso di questa app per creare video. Forse è mancata l’ampiezza di visione per far capire ai colleghi presenti che il mobile journalism è semplicemente il moderno giornalismo di oggi. Lo smartphone è una penna per raccontare storie, Luma la scatola magica per definirle, ancora lo smartphone è il mezzo di pubblicazione sulle piattaforme di un giornalismo che è soprattutto conversazione con il pubblico. Questo è l’ecosistema dove interpretare il giornalismo, questi sono gli strumenti. Professionali. Senza se e senza ma.

La rottura dei canoni

Se la mattina mi ha lasciato l’impressione che il mobile journalism venisse raccontato come una soluzione B quando non si può fare “le cose come abbiamo sempre fatto”, il pomeriggio mi ha conquistato perché la dato messaggi di rottura del giornalismo in mobilità. Li hanno dati, almeno nel corso che ho seguito, Pierluigi Grimaldi e Carmine Benincasa. In tre ore hanno spiegato il mondo dei video per i social e sono riusciti in uno degli intenti principali del mio lavoro. Quale? Far capire che il giornalismo è giornalismo ovunque. Su qualsiasi piattaforma, con qualsiasi linguaggio visivo, con qualsiasi strumento esso venga realizzato.

Questo messaggio dovrebbe arrivare lontano: il giornalismo resta giornalismo, ovunque tu lo faccia. Sul fare del pomeriggio ho compreso la risposta alla domanda. Te la do con questi 55 secondi di riflessione. Il mobile journalism non sta benissimo perché non ha ancora sfondato il muro della resistenza al cambiamento. Eppure io sono 6 anni che lavoro in total mojo per chiunque e facendo qualsiasi tipo di contenuto multimediale.

“Mobile journalism occasione persa”

Il pomeriggio mi ha lasciato un dubbio. Sembra che il giornalismo mi mobilità sia cresciuto nel suo ecosistema di hardware e software, sia diventato grande con il lavoro in cloud. Sembra che in giro per il mondo si sia praticamente fuso con i nuovi paradigmi del giornalismo moderno, ma nel nostro piccolo mondo antico sia ancora una cosa da tirare fuori quando non puoi fare le cose con la telecamera e in 4K.

Ecco il mio pensiero serale.

Poco dopo aver registrato questo video ho fatto una chiacchierata con Nico Piro, numero uno di Mojo Italia. E lui le ha dette chiare. I giornalisti fanno fatica ma mostrano un enorme interesse. Quelli che perdono l’occasione, secondo lui (e pure secondo me) sono gli editori. Guarda il video.

La chiacchierata con Nico Piro

Il mobile journalism potrebbe stare meglio

Sono alcuni giorni che faccio i conti con le metriche che fanno parte di questa comunità che innova modi, strumenti e modelli del giornalismo. Faccio i conti e vedo che siamo in pochi. Mi viene da pensare che il mobile journalism potrebbe stare meglio, ma per farlo stare meglio bisogna spingere: sulla cultura, sulla formazione, sul cambio di mentalità, sul posizionarlo lontano dalla categorizzazione dove è finito.

Bisognerebbe portarlo più su. Altrove, bisognerebbe provare questa cultura, questo modello, questo modo di intendere il giornalismo in altri modi e in altre realtà. Ti confesso che ad Algoritmo Umano sono già partite le rotelline, ci stiamo già pensando e, in un futuro non lontano, ti racconteremo cose nuove. Per ora si resta a questa mia ultima chiacchierata con Nico che dice chiaramente: gli editori italiani sono impantanati a metà della transizione digitale. E intanto si perdono l’occasione data dal giornalismo in mobilità.

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